1630 – La recensione di Oscar Biffi

La sintesi è un fattore fondamentale nella narrazione. Alla faccia della famigerata pistola di Cechov.

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La sintesi è un fattore fondamentale nella narrazione. Alla faccia della famigerata pistola di Cechov, è facile sottovalutarla, magari scambiandola per povertà. Nei giochi di ruolo dal vivo commettere questo errore di valutazione risulta ancora più semplice, perché quello che in un romanzo richiederebbe una riga, in questa particolare forma del racconto pretende costumi, ambientazioni, accordi tra le parti e via discorrendo. Questo a volte va a detrimento dello spirito del gioco, della visione, del design, insomma dell’idea. 

Tutta questa premessa per dire che in 1630, l’ultimo ruolo vivo dei ragazzi della Chaos League, in ogni cosa si è avvertita la presenza alle spalle di un’idea forte, di un impianto studiato per convogliare i tanti elementi che compongono un gioco verso uno scopo preciso e condiviso. Non è difficile immaginare il processo messo in atto dagli organizzatori: dopo aver scovato un’ambientazione tanto evocativa quanto improbabile (un borgo medievaleggiante di nuova costruzione sperduto tra i colli umbri), hanno ritagliato un’ambientazione capace di coniugare la concretezza di questo luogo con un’importante esercizio d’astrazione, ovvero la scelta di temi cari alla loro sensibilità da esplorare insieme ai giocatori.

Nel loro manifesto, Southern Way – New Italian Larp, è dichiarata la fascinazione per l’allegoria, ma, al di là del chiaro richiamo tra l’ambientazione di un villaggio isolato dalla peste e il dilemma più che mai attuale di accettare o rifiutare l’altro in una situazione di crisi, in questo caso mi sembra che il territorio sia quello del simbolismo, con il morbo nero a rappresentare tutta una serie di timori ancestrali, oscuri e quasi indistinguibili nel groviglio della natura umana. La storia infatti non ha offerto facili risposte, solo domande complesse.

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Questa focalizzazione sugli elementi portanti del racconto ha permesso di spalancare completamente la porta alle proposte dei giocatori, invitandoli a costruire i personaggi a partire da scelte altrettanto chiare e semplici: la famiglia di appartenenza (una tra cinque, intuitivamente nominate con iniziali dalla A alla E per rispecchiare uno status sociale decrescente), il proprio mestiere (che portava con sé mansioni da svolgere attivamente in gioco, con tanto di tutorial per imparare ad accendere il fuoco o affilare lame, e almeno due quesiti ai quali il giocatore è chiamato a rispondere per definire la natura del personaggio), una società e una cerchia (rispettivamente, una visione del mondo e un passatempo).

A partire da questa base, è stato organizzato un incontro a Bologna (al quale purtroppo non ho avuto modo di partecipare), seguito dalla messa online di un portale dedicato, uno strumento molto articolato che, nella mia esperienza, ho trovato davvero funzionale, oltre che estremamente divertente. Infatti ci si è trovati nella condizione di poter contattare gli altri partecipanti in privato, così come di lanciare proposte all’interno della propria famiglia o società o cerchia oppure in pubblica piazza, elaborando le idee in gruppo per poi pubblicarle nella forma definitiva in appositi forum, in modo da fissarle per se stessi e anche per chi non ha partecipato attivamente a questa fase. In questo periodo durato tre mesi, la narrazione ha proposto anche quesiti collettivi o di gruppo e in generale è stato un ottimo modo, oltre che per ricreare il vissuto che fa di un villaggio una comunità, per rompere il ghiaccio tra i giocatori, considerando anche la priorità data all’entusiasmo sulla precisione.

A volte l’impressione è stata quella di partecipare a una sorta di città virtuale, ascoltando i personaggi raccontare in ruolo, in altre a prendere la parola sono stati i giocatori con accordi ragionati secondo le esigenze dei meccanismi ludici: anche in questo caso la scelta della Chaos League è stata quella di lasciare tutto lo spazio possibile alla creatività, senza prescrizioni particolarmente puntuali.

All’opposto l’approccio quando si tratta della cura dei dettagli organizzativi, dove l’attenzione si fa quasi maniacale. Dopo l’incontro in un paese vicino per riepilogare insieme l’identità creata per Poggio de’ Corvi, questo il nome del borgo, siamo stati condotti allo spazio di gioco, tenuto segreto fino all’ultimo come d’abitudine degli organizzatori. Lì siamo stati invitati a ridurre il chiacchiericcio, lasciandoci guidare dal sottofondo musicale per cambiarci nei gazebi allestiti per l’occasione e vestire i panni dei nostri personaggi di fronte alle mura della nostra nuova casa.

A questo punto una divagazione sui costumi è d’obbligo, considerando la scelta peculiare di affidarsi a una costumista, Maria Guarneri, da mettere a disposizione dei giocatori che ne avessero bisogno, per noleggiare o acquistare il necessario. La numerosa adesione, oltre alla decisione coerente di assegnare a ciascuna famiglia un colore rispecchiato nel vestiario, ha permesso di ottenere un effetto d’insieme e un’omogeneità che non ha precedenti nelle mie esperienze di gioco.

Ancora una volta una visione, in questo caso estetica, che trova la propria forza nella semplicità e nella concentrazione sul lato ludico: lo scopo è fornire una base funzionale al giocatore, invitandolo a curare i dettagli del costume per differenziarsi quel tanto che basta in un contesto dove la cosa più importante è il risultato comunitario, non la volontà di spiccare per ricercatezza (anche perché parliamo sempre di una finzione narrativa che mette al centro un borgo povero, isolato dalla peste).

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Tornando all’ingresso in gioco, dopo la vestizione, a ciascuno è stato consegnato un lettore mp3 che ci ha guidati in una vera e propria visita guidata di Poggio de’ Corvi, per prendere confidenza con tutti i suoi luoghi, dalle case alle botteghe. Al di là della funzione di rendere lo spazio di gioco familiare, il testo recitato è stato caratterizzato dalla solita attenzione al dettaglio e soprattutto da un “calore umano” che ho ritrovato spesso negli elementi di finzione narrativa sparsi nei tre giorni al Poggio, come lettere e diari. Questa dimensione di umana miseria, sempre sul punto di farsi tragedia coinvolgente, ha strisciato sotto la pelle di ogni nostra azione.


Non credo abbia significato raccontare gli eventi di un gioco di ruolo dal vivo per inquadrarne il risultato, non sono fatti per un pubblico esterno e non inquadrano la sostanza più di quanto raccontare la trama dell’Amleto possa servire a recensirne la messa in scena. Preferisco quindi ricollegarmi al discorso iniziale fatto sulla sintesi: gli interventi della narrazione sono stati pochi e mirati, con i suoi componenti che di fatto hanno sempre giocato al nostro fianco; alcune delle moltissime cartucce preparate dai giocatori durante il gioco diffuso sono state sparate, altre invece no. Non perché abbiano fatto cilecca, ma perché, restando in metafora, lo scontro a fuoco sul campo di battaglia delineato dagli organizzatori è stato così intenso da riempire agevolmente tutti e tre i giorni, senza bisogno di sparare fino all’ultimo colpo nonostante il rammarico per il potenziale sprecato. Di fatto ho lasciato in coda la caratteristica di 1630 che mi ha colpito di più: il ritmo.

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Metto le carte in tavola, identificandomi come un appassionato degli scenari definiti spesso “da camera”, quelli dove pochi personaggi si confrontano per poche ore. Breve, ma intenso, insomma. Questa preferenza mi porta a soffrire particolarmente i momenti di stanca che, in maniera quasi fisiologica, subentrano spesso in giochi dalla durata superiore che devono intrattenere più partecipanti. Aggiungiamoci la mia scarsa passione per la simulazione o la sperimentazione di attività lontane dalle mie esperienze (non a caso ho scelto il ruolo del seminarista, anziché divertirmi a fare il carpentiere) e abbiamo il quadro della situazione.

Ecco, in 1630 ho ritrovato l’intensità della quale ho bisogno e soprattutto la sensazione imprescindibile che tutti siano protagonisti, nessuno comparsa. Quella strana convinzione che ti porta a credere di aver giocato almeno una volta con tutti, anche se, essendo in cinquanta e divisi in famiglie non sempre in ottimi rapporti, nei fatti non può essere stato così.

Nella mia esperienza con loro, ho sempre considerato lo spirito di gruppo come la specialità di casa Chaos League, ma i temi di questo particolare ruolo vivo hanno spinto il risultato al massimo, facendo della tensione e dell’aperto conflitto un motivo di aggregazione più che di divisione. Nel mio ruolo, ho provato per quasi tre giorni consecutivi la sensazione di essere tirato da più parti, dalle ragioni della famiglia, dell’amicizia, della Fede, della paura di morire. Sono arrivato alla fine esausto e stravolto, ringraziando in silenzio l’organizzazione per la scelta di un finale che, nonostante le sue molte ombre, lasciava aperta una speranza di catarsi. Non sarei riuscito ad apprezzare altro pathos, senza scioglimento.

Tirando le somme, trovo che il maggior merito dei ragazzi di Chaos League con 1630 sia stato quello di approntare una struttura che ha permesso a loro di concentrarsi sui dettagli veramente funzionali e ai giocatori di avere una base solida sulla quale costruire liberamente. Non ho dubbi che le due repliche siano state molto diverse l’una dall’altra, perché alla focalizzazione sui temi è corrisposta una grande discrezionalità riconosciuta al modo in cui affrontarli. Ambientazione centrata, costumi azzeccatissimi e storia avvincente sono fondamentali, ma a fare davvero la differenza per me è stata una visione coerente capace di mettere in sintonia i giocatori e spingerli a dare il meglio, remando tutti nella stessa direzione. Livellare il gruppo verso l’alto, dando spazio all’eccellenza che ogni singolo può offrire, un equilibrio non semplice da raggiungere. Ma quando si riesce nell’intento è davvero un successo.

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